HOME   | GLI AUTORI |   POESIA   | OPERE IN DIALETTO |   PROSA   | SAGGISTICA |   FAVOLE   | SCRIVICI |
|
LO SCRITTORE VALERIO VARESI
|
Presentiamo adesso le due opere più impegnative di Euro Puletti.
|
“IL RAGAZZO E IL FIORE” di Euro Puletti Un giorno di maggio come tanti altri, sole già caldo, boschi in pieno rigoglio vegetativo, voci naturali ovunque. Un ragazzo come tanti altri percorre un suggestivo sentiero del Monte Cucco in cerca di pace e distensione. La marcia si snoda su di un sentiero conosciuto, sotto alberi visti e rivisti; tutto sembra previsto e prevedibile, nulla lascia presupporre che quello sarebbe stato un giorno da ricordare. Ma ecco, come un'intuizione, la voglia d'avventura, mi spinge a lasciare la pista battuta per il versante ignoto e selvaggio, ricoperto di macchie intricate e punteggiato di calcari bianchissimi, affioranti come le prore di battelli alla deriva. Ed allora, eccomi a salire su per lo strame umido del bosco e scivolare e cadere ed afferrarmi agli alberi ansimante. Ero ignaro di dove mi stessi dirigendo, ma le mie gambe e qualcosa di inconscio in me seguiva una pista interiore già tracciata da altri e perfettamente chiara. La grande balza, la poderosa balza era il mio fine ed il mio richiamo, per il quale spendevo tanto sudore. Grondavo di sudore, ero immerso nel mio sudore, pareva che, su di me, si fosse abbattuto un nubifragio mai visto. Fumavo dei vapori che io stesso esalavo. Ed eccomi alla meta, a un passo dal traguardo, ma no, scivolo stremato su di un ammasso di fango e cado con la faccia per terra e mi ricopro di fango. L'umidità delle foglie intrise d'acqua allevia il mio bruciore, ma non affievolisce per nulla l’ardire, anzi l'ardore, di toccare, per la prima volta la grande balza, la singolare balza, forata come una ciambella. Mi rialzo e, con la forza della disperazione, comando alle mie gambe, che non sento più, di muoversi; ma neanche esse mi sentono, così dev’essere qualche altra parte di me a farle muovere, non il cervello, ma il cuore, l'anima, il sentimento, qualcosa di stranamente accordato con la roccia, la roccia nuda, fredda, immobile, ignara, indifferente, immutabile. Eppure la mia anima vuole essere roccia, vuole essere solida come il sasso per arginare il troppo pieno di sensazioni che bevo come una tazza di latte tiepido nel maggio della mia vita, immerso nel maggio della natura. Una goccia basterebbe, una sola unica, ulteriore stilla potrebbe far debordare il vaso della mia mente già ebbra di suoni, odori, immagini che mi colpisco al centro dell'essere in quella parte oscura in cui, si sente, essi smuovono la nostra parte più riposta, quella che se ne sta, sonnolenta e distante, in disparte, dal nostro essere desto e cosciente. Ma no! Mi dico, non reggerei un'altra visione naturale, stramazzerei al suolo privo di sensi e, perciò, decido di ritrovare la via della ragione, persa in quell'oscura selva delle sensazioni. Ma da dove iniziare? Dove appigliarmi per districare il perduto bandolo della matassa? Tutto intorno a me è confuso, intricato, meravigliosamente oscuro ed inesplicabile. E l'inesplicabile non dice nulla alla ragione, ma eccita i sensi. Perso in questi pensieri, credo di sognare, ma, quello che vedo, per quanto fantastico, somiglia, pericolosamente, alla realtà: un fiore, un enorme fiore, anzi due enormi fiori globosi e giallissimi che pendono da una cengia della grande balza. Ripasso mentalmente le mie umili conoscenze di botanica e penso, anzi credo, no, sono sicuro, quel fiore è... è... la rarissima Scarpetta di Venere, la Pianella della Madonna, il Cypripedium calceolus! Penso: non posso crederci, una visione, la è mia stanchezza a farmi credere... a farmi vedere ciò che non vedo, ma che giace, da sempre, al fondo di me stesso. È una proiezione della mia psiche instabile. Ma no! Non è così! E, più il tempo passa, più cresce la mia certezza. Sfioro quella pianta con un dito: è liscia e vellutata ed i suoi fiori globosi oscillano, come naturali lampioni accesi anche di giorno, nello sfarzoso salone della natura. Non è un miracolo, ma il miracolo ora avviene in me. I miei nervi si distendono, la mia mente si chiarifica; quel fiore, la sua sola presenza, il suo solo colore, danno un senso a tutto ciò che mi sta intorno. Ecco il bandolo della matassa, il filo d'Arianna col quale esplorare il dedalo delle mie emozioni intricate. Tutto si decanta in me, tutto si chiarisce: era quel fiore che cercavo, quel fiore voleva essere cercato da qualcuno e aveva prescelto me, proprio me, per cercarlo, per scoprirlo, per viverlo. Quel fiore muto mi parlava un suo singolare linguaggio che mi spiegava i misteri della natura e mi suscitava il rispetto per tutto ciò che esiste. Ora tutto era razionale e placato in me e il temporale delle sensazioni si allontanava con sordi brontolii di tuono ed il sole caldo del maggio della ragione illuminava la mia pelle facendomi strizzare gli occhi e asciugando i rivoli del mio sudore. Tutto il mio essere rideva ed io ero felice nel profondo. Non rivelerò mai a nessuno il luogo esatto dove ho visto apparire quel fiore. Tradirei me stesso, rivelerei la mia anima troppo vulnerabile. Esso è, infatti, la mia anima e la mia anima è quel fiore. È il mio Santo Gradale che si perde e si ritrova solo se si è degni di lui, se si sa riconoscerlo, se l'eccesso della ragione non acceca la nostra flebile, troppo fievole vista. Ora non sono più degno di ritrovare quel fiore e, pur tornando nel luogo preciso della sua scoperta, esso non sboccia più per allietarmi, forse è estinto... Dovrò prima ricercare dentro me stesso e, ritrovandomi, ritroverò il fiore e, con esso, la pace e la ragione. di Euro Puletti |
“IL RAGAZZO E LO SPIRITO DELLA MONTAGNA” di Euro Puletti Un giorno, ero ancora bambino, rimasi affascinato dal racconto di una vecchia contadina delle mie parti. Ella, infatti, mi narrava come, ancora fanciulla, pascolando il suo bel gregge di pecore sui verdi pianori che bordano, ad oriente, il Monte Cucco, avesse sentito, più e più volte, il richiamo di un misterioso Essere, che abitava sotto l’orrida balza de La Fida (1), in uno dei più arcani recessi calcarei della Montagna: la voragine Bocca Nera (2). L’Essere, mi disse la vecchia, si chiamava Diàntene (3) ed era mezzo uomo e mezzo caprone. La vecchia continuò il suo racconto, dicendomi che la Creatura aveva corpo muscoloso, braccia lunghe e mani grandi, ossute, pelosissime e piene di vene, che affioravano come le nodose radici di un albero da un tappeto erboso. Ma fu la descrizione del volto quella che più mi colpì: i grandi occhi neri, il naso lungo e affilato, la bocca sempre stirata in una smorfia ironica e beffarda e, infine, la bianca barba, lunghissima e cespugliosa, mi trasmisero un misto di paura ed attrazione insieme che mi inchiodava letteralmente al terreno. Per un motivo inspiegabile, tuttavia, quel giorno stesso volli salire al Monte Cucco e dirigermi verso quel pauroso antro, nel quale la vecchia mi aveva indicato la sicura dimora del grande Essere della Montagna. Allora, d’improvviso, giunto davanti alla bocca della vasta spelonca, e oltrepassatane la soglia, lo spazio si allargò, il tempo si fermò ed ecco che, finalmente, vidi. Vidi non con gli occhi, ma con l’anima, e vidi ciò che avevo nello spirito. Vidi l’Essere che, sorridente, veniva trotterellando verso di me e mi prendeva in braccio e mi portava all’esterno, mentre, tutto attorno, cadeva fitta la neve, a placare ogni dolore dell’anima e del corpo. Credevo di sognare, ma, pizzicandomi, sentii dolore, e allora capii che non stavo dormendo, ma non ero neppure perfettamente desto. Questo stato liminare mi preservava dalle emozioni troppo intense, che avrebbero certo potuto ferirmi, ma non mi impediva di vedere, udire, annusare, toccare un mondo che, finalmente, tornava alla sua unità primigenia. Provavo simultaneamente tutte queste sensazioni e, pur rimanendo sempre me stesso, non differivo affatto da quelle balze che ora, in braccio al Diàntene, vedevo stagliarsi imponenti sopra di me, intagliate nel diamante purissimo del cielo. Erano state loro ad aver voluto che, un giorno, una minuscola parte di esse si staccasse e assumesse il pensiero e la coscienza e, con essi, il dolore e la morte. Il Diàntene mi portava con sé e, trotterellando, mi mostrava il suo regno, ormai ultimo feudo di una schiatta estinta, quella delle creature senza malizia. Ed un fanciullo, infatti, sembrava il mio forte amico, quando, mostrandomi, con orgoglio infantile, ora un albero del bosco, ora un animale, ora un ruscello od una grotta, me ne spiegava l’importanza e la sacralità. Ci fermammo di fronte ad una parete rocciosa, da cui scaturiva, con forza, un imponente getto d’acqua gelida e squisita, che, rimbalzando e scivolando, si gettava in una stretta e profonda forra, ove il suo fluido elemento veniva inghiottito dall’assetato Essere della Montagna. Il Diàntene allora si inginocchiò e potei così vedere nitidamente il suo forcuto zoccolo caprino e contemplare, alla mia altezza, quel grande volto silvano, i cui occhi avevano abbassato le palpebre. Mi sembrò, allora, di sentire un bisbiglìo come di preghiera e, guardatolo meglio, vidi che l’Essere piangeva. Vedendo una Creatura così possente piangere e scendere grosse lacrime su quel volto silvano, rugoso e cotto dal sole di mille estati, pensai ad un calcinato deserto che, dopo tanta siccità, riceve le prime gocce di pioggia e le beve e le accoglie nel suo seno riarso. Il Diàntene, strappandomi bruscamente ai miei pensieri, d’improvviso si alzò, e asciugandosi le lacrime con la grande mano rugosa, prese a guardarmi, e, guardatomi, scoppiò in un riso fragoroso, in tutto simile al gorgogliare della sorgente. E riso e gorgoglìo si mischiarono e si fusero tanto e così bene che non potei più distinguere quale nascesse dalla roccia e quale invece uscisse dall’ampia bocca dell’Essere. Il Diàntene, vedendomi visibilmente turbato, si affrettò allora a dirmi d’aver pianto perché ricordava il passato, quando, ancor giovane, veniva con i suoi simili a bagnarsi a questa sorgente, a bere quest’acqua e a purificarsi. Egli, poi, volle rinfrescarmi le tempie con quell’acqua gelida e lustrale e farmene bere un sorso, dicendomi che quella era l’acqua della vita, l’acqua che purifica, che feconda e guarisce. Mi disse pure che era stato un Santo a farla sgorgare per dissetare gli uomini e gli animali. Fattasi sera, l’Essere mi riportò all’antro e, qui, dopo che ebbe acceso il fuoco, ci sedemmo in terra. Allora, io iniziai ad interrogarlo sulla sua vita e sulla sua concezione del mondo contemporaneo.
…MONTE CUCCO, 24 DICEMBRE D’UN ANNO QUALUNQUE… di Euro Puletti 1) Località boscosa e rupestre del Monte Cucco 2) La voragine Bocca Nera è una delle vprincipali grotte del Monte Cucco 3) Il Diantene allude ad un famoso miracolo, operato dal Beato Tomasso da Costacciaro, il quale nei pressi del suo paese natale di Costa San Savino, perquotendo la roccia con un bastone, fece scaturire una sorgente ancor oggi attiva. |
QUEI TRE MONTI TRA MARCHE E UMBRIA, NATURA E CULTURA... Tra l’Alta Umbria nordorientale ed il confine sudoccidentale della provincia di Pesaro e Urbino, nelle Marche, tre monti rappresentano, con i loro apici, i vertici di un immaginario triangolo, la cui area fu considerata sacra per la vita religiosa di molte genti ivi succedutesi nei millenni. I monti sono: il Catria, ad oriente e settentrione; il Cucco, a mezzogiorno e levante; l’Ingino, ad occidente. L’area, come ho già detto, è essenzialmente montuosa, fatta di balze strapiombanti e fitti boschi di faggio ed acero, ma, al suo interno, sono comprese anche dolci e tondeggianti colline verdi; piccole, amene pianure; tre nascenti fiumi, il Cesano, il Sentino ed il Chiascio; una suggestiva città medioevale: Gubbio. Su quei tre monti, crocicchio di spiritualità, si intersecarono, sovrapposero e fusero molti esempi di religiosità. Dapprima, furono gli Umbri della gente Petronia ad erigere, in un luogo ancora ignoto, cippi, colonne, e steli lignee mobili, attorno alle quali sacrificare un cane, nella cerimonia dedicata a quel dio, che, nel Pantheon umbro, presiedeva alla terra: Hondo. Il cane sarebbe dovuto andare nel regno dei morti ad interpellare gli antenati e riportarne auspici per il futuro dei propri successori. Questo ci è testimoniato dalle Tavole Eugubine, il primo documento scritto della lingua umbra che ci sia pervenuto. Queste steli lignee mobili potrebbero rappresentare gli archetipi delle macchine dell’attuale festa dei Ceri, la quale, sia pur modificatasi nel corso dei tempi, per l’apporto successivo di varie stratificazioni culturali, perpetua un rito atavico, forse addirittura pre-umbro e preindoeuropeo. Gli Umbri usavano i boschi sacri come templi dalle viventi colonne. E liturgie legate all’albero sopravvivono, modificate, nella festa del Maggio di Isola Fossara ed in quella di San Pellegrino. Si tratta, in sostanza, di alberi abbattuti e scortecciati, portati a spalla nelle piazze dei paesi ed eretti in occasione di particolari ricorrenze stagionali come l’inizio della primavera. Anticamente, tali feste dovettero coincidere con le Feriae Cereales, che venivano celebrate in onore della dea Cerere. Il Maggio di Isola Fossara è significativamente coronato di rami dell’arbusto del bosso (Buxus sempervirens), un vegetale sempreverde che rappresenta, in maniera simbolica, l’immortalità, la gloria, la rigenerazione dopo la morte. Nella festa di San Pellegrino, il pennacchio verde che viene lasciato a coronare il vertice del Maggio non è altro che la porzione apicale dello stesso pioppo cipressino (Populus nigra pyramidalis), che si impiega per celebrare l’intera cerimonia. Tali riti ricordano e perpetuano celebrazioni falliche agresti; riti di passaggio e di iniziazione dei giovani alla vita adulta, forse pratiche propiziatorie della stagione agricola e della fecondità della terra. Oggi, l’antica origine ed il significato del rito sono stati dimenticati e la loro finalità sostituita da cerimonie in onore di Santi Cristiani. In età romana, in questi luoghi fu eretto un tempio dedicato a Giove Appennino, la cui precisa localizzazione è ancora ignota. Fu il Medioevo a fare di questi siti, dimenticati dalla grande storia delle guerre e del denaro, la confluenza di diverse esigenze spirituali. La Congregazione dei Benedettini Camaldolesi, istituita dal ravennate San Romualdo degli Onesti nell’undecimo secolo, fondò, in pochi chilometri quadrati, ben due abbazie e fu l’ispiratore della costruzione di un grande, famoso monastero: Fonte Avellana, dove visse San Pier Damiani e fu ospite Dante Alighieri. Più tardi, nel secolo XVI, un riformatore della stessa Congregazione romualdina, il Beato Paolo Giustiniani, gettò le basi del suo primo eremo, sotto alle strapiombanti balze orientali del Monte Cucco. L’Eremo di San Girolamo raccolse eremiti sparsi, e diffusi da secoli nei luoghi più sperduti ed impervi della montagna. I toponimi del monte testimoniano il passaggio e l’assidua frequentazione eremitica di un antichissimo sacello, forse d’origine altomedioevale: quello di San Girolamo. In questi luoghi, cantati da Dante, si stabilì un perfetto ed equilibrato rapporto tra uomo e Natura. Gli Umbri, con il loro panteismo, adorarono le forre, le grotte, i boschi e le sorgenti del Monte Cucco e del Catria. Nelle grotte riconobbero la presenza di geni tutelari, quali il dio Holo e Vofiono, deità della terra infera. I Romani continuarono questa tradizione animista. I Benedettini, con la loro “stabilitas loci”, piantarono boschi e curarono la terra come un giardino di Eden, fondando, forse, alcune loro abbazie su templi romani ed umbri. I Francescani, con la loro diuturna “itinerantia”, completarono la spiritualità benedettina con la povertà assoluta, il nomadismo e la semplicità. Tutti, indistintamente, rispettarono ed amarono la Natura. A Gubbio, San Francesco fece la pace con Frate Lupo, ristabilendo, così, il perduto dialogo con gli esseri e le cose. Questo idillio con la Natura, è condensato nel Cantico delle Creature, vero e proprio atto d’amore per il Creato. A Fonte Avellana, un Tasso, o Albero della morte (Taxus baccata), testimonia di questo amore per gli alberi e per la Natura. Esso, anche se l’età accertata è di “soli” quattrocento anni, si pensava dovette forse essere piantato con la fondazione del cenobio, avvenuta attorno al 1081 per opera di San Pier Damiano. Sotto alla sua ombra tutelare passarono, comunque, generazioni e generazioni di religiosi, Beati e Santi. È così che, “tra duo liti d’Italia” e “l’acqua che discende del colle eletto dal Beato Ubaldo”, si è perpetuata, modificandosi nella forma, una tradizione religiosa e culturale ininterrotta, nel segno della Natura, dell’uomo e di Dio. Euro Puletti |
Storie e
leggende sulle grotte del Parco di Monte Cucco I molteplici fenomeni carsici, che costituiscono
la specificità maggiormente caratterizzante il massiccio montuoso che fa capo
al Monte Cucco, furono, per secoli, ravvolti da un alone di mistero. E, il
mistero, stimolò, al tal punto, la fantasia degli uomini che frequentavano
abitualmente la montagna da far sì che essi concepissero numerose storie e
leggende. La più parte di questi racconti fantastici,
affidati alla sola tradizione orale popolare, è andata purtroppo perduta. Di
altri non ci è giunta che un’eco flebile, intermittente ed indistinta. Una testimonianza di questo patrimonio perdutosi
per sempre ci è fornita dal conte Girolamo Gabrielli di Gubbio, il quale, nel
resoconto di una delle prime esplorazioni della Grotta di Monte Cucco (secolo
XVIII), così scriveva in proposito: “Queste grotte, al dir delle nostre
vecchierelle, erano un albergo di Fate ed un aggregato di tesori…”. Successivamente, anche Giambattista Miliani, il
primo esploratore scientifico di tali grotte, accenna ad alcune delle storie di
un’altra importante cavità del Monte Cucco: Bocca Nera. Così annotava, infatti,
tra il 1890 e il 1892, il Miliani: “Piuttosto può attirare l’attenzione –
perché è in vista e per qualcuna delle solite leggende che vi si ricamano
attorno – una larga apertura […] che […] ha il nome assai efficace e fantastico
di “Bocca Nera”. E Bocca Nera esercitò su me così potente il suo fascino, che,
quantunque all’aspetto come al nome sia tutt’altro che incoraggiante, decisi di
calarmivi dentro e vedere se inghiottisse anche me, come i cani e le pecore che
dicono sianvi precipitati”. In una delle poche storie rimaste ancora vive
nella tradizione orale popolare delle nostre genti appenniniche si narra di un tesoro riposto nella grotta da taluni
guerrieri alcuni giorni prima di una battaglia. Disegnata la mappa, tali combattenti
andarono a guerreggiare e, sfortunatamente, morirono tutti. Pare che qualcuno,
questo tesoro, l’abbia effettivamente cercato. Sempre nella famosa Grotta, secondo un’antica
leggenda del paese di Sigillo, ambientata in epoca romana, per conservare la
libertà minacciata dai Romani, si sarebbero rifugiati ben duemila sigillani
(probabilmente gli umbri suillates). Venuti a conoscenza di questa fuga di
massa, i Romani avrebbero raggiunto la grotta e, accendendo dei fuochi attorno
alla bocca della cavità, avrebbero fatto perire tutti con spaventose “fumate”. Secondo un’altra tradizione orale popolare, nella
medesima Grotta sarebbe stato gettato un gatto. Dopo un certo periodo di tempo,
il felino sarebbe stato ritrovato, vivo e vegeto, nei pressi del paese di Villa
Scirca, alle falde occidentali del Monte Cucco. Alcune credenze popolari vogliono, poi, che la
“Buga de Monte Cucco” (questo è il nome tradizionale della gran cavità carsica)
si sia formata a causa di fenomeni vulcanici. Taluni ritengono, infatti, che,
nel passato più remoto, Monte Cucco fosse un vulcano, o, come dicono altri nel
settore marchigiano dello stesso massiccio montuoso (San Felice), un “gran
vessuvio”. Altri ancora ritengono che le onde sismiche, trasmesse dai terremoti,
che, periodicamente, colpiscono l’area di Monte Cucco, attraversando la Grotta
vengano smorzate e fatte “sfogare” dalle più grandi aperture di questa. Qui, infatti, esse troverebbero ampio “sfogo”,
giungendo, poi, assai attenuate, fino agli abitati distesi alla base del gruppo
montuoso. Non di credenze sui fenomeni meteorologici si tratta, dunque, ma, più
propriamente, di “teorie” popolari sulla formazione della Grotta e sulla
dinamica dei terremoti che colpiscono le zone limitrofe alla stessa. Sempre sul Monte Cucco, ma in una grotta diversa
dalla principale, l’Inghiottitoio Fossile, già denominato Tana del Lupo (N.
Cat. 352 U / PG), si sarebbero
rintanati numerosi Lupi. Tali animali abitavano (secondo la tradizione orale popolare),
in gran numero, l’area circostante alla grotta, un bosco di faggi che
costituisce uno fra i più interessanti lembi di vegetazione arborea sommitale
del Monte Cucco: “Il Boschetto”. Lungo il versante occidentale della montagna si
apre un vasto androne denominato Grotta de Sant’Agnese (N. Cat. 79 U / PG). La
suggestiva cavità carsica presenta, al suolo, resti di muri a secco, costituiti
da pietre acconce. La tradizione orale popolare di Costacciaro vuole che
l’antro servisse da eremitico rifugio ad un’enigmatica Sant’Agnese di
Costacciaro, della quale rimarrebbe, insolita reliquia, una treccia
pietrificata. Nella grotta, tale “santa” della pietà popolare si sarebbe
periodicamente ritirata a “fare penitenza”, nonostante l’esplicito divieto del
padre in questo senso. Quest’ultimo avrebbe, inoltre, reagito violentemente
alla disubbidienza della figlia, sottoponendola ad un terribile supplizio. Per
vendicarsi di quanto era avvenuto, diretta conseguenza di una soffiata fatta al
padre da un pastore, ella avrebbe, allora, tramutato quest’ultimo in una statua
di pietra. Il pastore pietrificato con l’intero suo gregge ed il cane vengono
tuttora identificati, dai più anziani montanari, con una locale formazione
rocciosa: “Le Pecore Tarmìte”. Sul Monte Le Gronde esiste la grotta del Beato
Tomasso. È tradizione che in questa breve cavità, e nell’area ad essa
circostante, abbia condotto vita eremitica il Beato Tomasso da Costacciaro
(1262 – 1337) per lo spazio di 45 o, forse, 65 anni. L’area circostante alla grotta
è denominata, tuttora, “Il Beato”. Si racconta anche che questa zona venisse abitata,
per un certo qual tempo, da San Girolamo, il dalmata santo e dottore della
Chiesa del secolo V. Stando ad un’antichissima leggenda, infatti, Girolamo si
sarebbe nascosto in alcune delle grotte ed anfrattuosità rocciose presenti in
quest’area defilata, allo scopo di sottrarsi alla persecuzione dei sacerdoti
romani che egli aveva veementemente attaccato per la loro mancanza di
rettitudine. Sempre nell’area del “Beato” si sarebbero
attestati anche alcuni ladri che, a quanto si è scritto, battevano vi moneta
falsa e avevano preso di mira l’eremo ed i suoi beni. Sempre nel più scosceso
versante orientale del Monte Le Gronde, che guarda la Forra di Rio Freddo, si
sarebbero rifugiati alcuni ladri e malfattori, nascondendosi all’interno di due
androni denominati “Candi Picci”, dove avrebbero artificialmente praticato
alcune cavità (che i locali chiamano, tuttora, “tazze”) nella viva roccia
calcarea. Nello stesso versante orientale della montagna si aprirebbe una
grotta (probabilmente un inghiottitoio attivo), denominata Grotta Bielàcqua, o Grotta
Bevilacqua. L’origine di tale denominazione risiederebbe nel fatto che tale presunto
inghiottitoio capterebbe le acque ruscellanti, conseguenti a periodi di intense
precipitazioni. Sul Monte Catria, a 1000 metri di quota, “si
spalanca” un suggestivo androne: la Grotta della Valle del Sasso (N. Cat. 196 U
/ PG). In essa si sarebbero rifugiati taluni ladri, con tutta
la loro refurtiva, e avrebbero vissuto alcuni “fabbri” (forse battitori di
monete false). Nella grotta esiste un sifone naturale carsico che fornì,
ininterrottamente, l’acqua ai pastori e alle capre, consentendo, inoltre, che,
eccezionalmente in una cavità d’accesso assai scomodo come questa, si potessero
costruire alcune carbonaie. Poco oltre l’ingresso della cavità emerge appena,
dal suolo, un allineamento di pietre acconce, possibile resto di un muro a
secco, destinato a chiuderne, almeno parzialmente, l’accesso. Si crede che questa grotta abbia delle notevoli
prosecuzioni, grazie alle quali sia possibile raggiungere nientemeno che le
montagne prossime alla città di Cagli. Sul Monte Forcello di Scheggia esiste la Grotta dei
Rifugiati (N. Cat. 288 U / PG), o, con denominazione tradizionale: Il Pozzo dei
Sodi. Nel suo ingresso, a sviluppo verticale, secondo la tradizione orale popolare
del paesino denominato La Pezza di Scheggia, sarebbe stato gettato un gatto
che, qualche tempo dopo, si sarebbe visto circolare, come niente fosse, nelle
vicinanze della frazione di Ponte Calcara, o, meglio, Ponte Valìa, alle falde
meridionali del Monte Forcello, in una località coltivata che, successivamente,
proprio in seguito a questo curioso episodio, sarebbe stata denominata “Campi
Gatto”, cioè ‘campo del gatto’. 1 Cfr. G. Gabrielli, Lettera a Passeri (“La Grotta
di Monte Cucco”), in Storia di
Costacciaro (Castrum Costacciarii), Tipolitografia Rubini e Petruzzi, Città
di Castello, 1984, p. 127. 2 Cfr. G.B. Miliani, La Caverna di Monte Cucco, Bollettino C.A.I., n. 58, vol. XXV, 1891,
pp. 302 – 303. 3 Cfr. M. Spigarelli, Leggenda e Realtà, in “Il Grifo Bianco”, Sigillo, festa di S. Anna
1991, pp. 56 – 60. 4 Cfr. G. Pellegrini, La Caverna del Monte Cucco, in “Il Grifo Bianco”, Sigillo festa di
S. Anna 1992, p. 56. 5 Cfr. E. Puletti, L’eremo di Monte Cucco: Toponimi, aneddoti e curiosità, in “L’Eco
del Serrasanta”, Anno VII – n. 4 – 20/02/1994, p. 11. 6 Cfr. D. Bartoletti, L’Eremo di Montecucco. La civiltà eremitica e monastica sull’Appennino
dell’Alta Umbria, Tipografia Donati, Gubbio, 1987, p. 31. Euro Puletti |
UMBRIA, UN VERDE CHE SCOLORA “Umbria, cuore verde d’Italia”, uno slogan fortunato per catturare, sia il turismo di massa che quello cosiddetto culturale, o d’élite. Per il primo, esso racchiude il miraggio di un’isola incontaminata in cui fuggire lo stress e lo smog delle metropoli e respirare a pieni polmoni; per il secondo, coinvolge la sfera culturale, avvolgendola in un’aura di misticismo pagano-cristiano che si concretizza nelle Fonti del Clitunno, cariche di poesia pagana e in Assisi, gravida di serafiche reminiscenze spirituali. Il popolo umbro, in effetti, fin dalle sue più lontane origini, stabilì un rapporto privilegiato con le entità naturali. La Lex luci spoletina e le Tavole Eugubine ne costituiscono una testimonianza davvero inoppugnabile. Nella prima, ad esempio, si parla della tutela di un bosco sacro, identificabile oggi con la lecceta di Monteluco, sicuramente dedicato ad una divinità locale. La Lex luci spoletina è importante perché il bosco viene considerato sacro, inviolabile ed intoccabile per il popolo umbro, come simbolo della Madre Terra, procreatrice del bene e del male. Nella seconda, vi sono tutta una serie di riti di purificazione svolgentisi all’interno di boschi sacri, probabilmente di quercia; cerimonie di divinazione, fatte guardando uno spazio delimitato di cielo, detto “tempio celeste”, da cui si traevano auspici fasti o nefasti, a seconda degli uccelli che lo solcavano e dalla direzione da loro presa. Riti fallici agresti, propiziatori della buona stagione, del maggio, permangono quali testimonianze viventi di un rapporto panteistico ed animista con la natura. Ne costituiscono altrettanti esempi feste pagano-cristiane quali, i Ceri di Gubbio; il Maggio di Isola Fossara di Scheggia e quello di San Pellegrino di Gualdo Tadino. Il mondo romano, coi suoi dèi antropomorfi, si sovrappose e fuse a questi riti idolàtrici. Il Medioevo li cristianizzò. La spiritualità benedettina, prima, e quella francescana, poi, perpetuarono questo felice rapporto con la Natura. I Benedettini piantarono alberi utili; bonificarono paludi malsane; estrassero medicamenti dalle erbe e, oltre alla cultura, salvarono anche la Natura. I loro eremi si sposano magnificamente al paesaggio non deturpandolo affatto, ma, anzi, abbellendolo e, forse, persino migliorandolo. Così fece San Francesco, che stabilì un patto d'alleanza con “fratello lupo” e ritrovò il perduto dialogo con gli esseri e le cose. Tale idillio con la Natura è condensato nel Cantico delle Creature, vero e proprio atto d’amore verso tutto ciò che esiste. Attraverso i secoli, con Umanesimo e Rinascimento, Riforma e Controriforma, Illuminismo e Rivoluzione Industriale, Positivismo e Modernismo, questo rapporto perfetto venne lentamente ma inesorabilmente incrinandosi, fino al raggiungimento dell’attuale punto critico, un punto di non ritorno, una soglia naturale al di là della quale vi è solo l’autodistruzione. L’Umbria sembrava essere stata risparmiata, per il suo ruolo storico-economico marginale, dalle trasformazioni epocali che avevano invece stravolto altre realtà economicamente più avanzate, ma, negli ultimi anni, siamo stati muti ed impotenti spettatori di un degrado accelerato, il cui risultato più vistoso consiste nella rarefazione e degradazione progressive del patrimonio boschivo e delle risorse idriche. Sistemi selvicolturali errati; la troppa leggerezza con la quale si concede il taglio e la sua eccessiva frequenza; l’apertura di strade ovunque vi sia un fazzoletto verde da tagliare, sono tutti elementi di dissesto idrogeologico del territorio oramai “ex-verde” dell’Umbria. I fiumi sono ovunque captati per soddisfare richieste idriche eccessive, volte a compensare gli sprechi e la inadeguatezza della rete idrica. L’inquinamento, con la diminuzione delle acque, si concentra pericolosamente nei fiumi, in cui vengono convogliate acque reflue urbane, prive di una sufficiente ed adeguata depurazione. Quello che più preoccupa, però, è la scarsa sensibilità ecologica di alcune istituzioni umbre, specchio di un distacco, ben più profondo e generale, dall’ambiente di molti abitanti della Regione. Il mancato sviluppo, in Umbria, di aree protette degne di questo nome costituisce una prova lampante di questo stato di cose. Mi domando se, dopo il passaggio di questo ciclone del cosiddetto “progresso”, San Francesco, tornando in Umbria, riconoscerebbe la sua terra. Dove potrebbe trovare, d’altronde, quell’acqua “pretiosa et casta” e quei “fratelli lupi”? E, San Benedetto, rintraccerebbe più quei luoghi solitari e selvaggi che andava instancabilmente ricercando per impiantarvi eremi ed abbazie? E gli antichi Umbri per festeggiare quale Maggio della Natura erigerebbero quei pali fioriti che sono i Maggi? Per la terra dei pesticidi e degli anticrittogamici, o, forse, per l’acqua dell’atrazina e del molinate? Non sarebbe forse ora che un emulo del serafico “giullare di Dio” tornasse a predicare una nuova alleanza con la Natura, cominciando proprio dall’opulenta città dell’Ascesi, invasa da ninnoli e souvenir, anche a rischio di essere preso per pazzo, come avvenne per l’“Alter Christus”?... Euro Puletti |
“IL RAGAZZO E LA MONTAGNA” di Euro Puletti Tra un uomo e l’ambiente in cui abita si instaura, anche suo malgrado, un rapporto tanto più stretto quanto più questi vive e agisce su di esso. E la solitudine amplifica e acuisce il dialogo tacito tra le due materie, vivente e pensante l’una, vivente e minerale l’altra. Anzi, si potrebbe persino dire che, dove finisce l’una, l’altra comincia. L’uomo col suo pensiero rappresenta lo sforzo immane che la natura ha compiuto verso l’acquisizione di un pensiero che potesse capire la forza ignota che la muove in direzione di una forma, dall’inizio dei tempi. Più e più volte ho percepito, durante lunghe passeggiate solitarie, la complementarità del mio essere col suolo, le pietre, i funghi, le erbe o le grotte. Più e più volte, osservando una pietra su cui ero seduto e toccandola e sentendone la rugosità, la scabra superficie, che ora diventava levigata, ora riassumeva la sua incongruenza tagliente, mi sono sentito parte di essa. Ed una pace profonda mi invadeva quando, stretto dall’abbraccio potente della montagna, giacevo supino in un soffocante cunicolo che mi serrava tutto il corpo. In quel momento, perdevo la mia determinazione e singolarità, ridiventando parte integrante ed indistinta del grande essere magnetico che annullava il mio pensiero. Ma non pensiate che perdessi vitalità, anzi, ero più che mai vivo, poiché sentivo transitare in me tutte le forze vitali della Natura primigenia. E’ solo con la dimensione totalizzante della coscienza che noi abbiamo perduto il contatto con le plurime dimensioni della vita. Più la nostra mente è progredita, più l’uomo ha sentito lo strappo, la lacerazione tra due entità prima indistinte ed indivise: l’anima e il corpo. Quante volte anch’io ho sentito il mio corpo e la mia mente viaggiare su binari paralleli, ma incomunicabili. Spesso ho percepito la mente lontana anni luce dall’involucro corporeo che era costretta a presiedere. Ed il corpo sfuggiva al controllo della mente e viaggiava, per proprio conto, per liberarsi dal giogo impostogli dall’alto. Ed il corpo veniva punito della sua insubordinazione col dolore che la mente proiettava su di esso. Quanti meravigliosi momenti ho provato immerso nella natura! Quante volte, sprofondato nel folto dei boschi di monte Cucco, o in un riposto andito del dedalo della sua grotta ho sentito il mio essere vivere all’unisono col grande patriarca minerale. Ho amato la sua stabilità, la sua rocciosa immobilità, le sue tenebre più rassicuranti di qualsiasi sole. Silenzio, solitudine e tenebre, vere panacee ai laceranti mutamenti della mia anima nell’età dello sviluppo. Cardini irremovibili attorno ai quali ruotata tutta la mia vita. Quante e quante volte, lontano dalla mia terra, ho invocato e rimpianto la solenne immobilità dei drappeggi di alabastro delle stalattiti e quante altre ne ho invidiato la fissità eterna, la costituzione cristallina e pura, la crescita inesorabile e possente, nutrita della sola acqua. Più volte ho desiderato trasformarmi in una stalagmite per restare in eterno là dove il mio spirito irresistibilmente mi spingeva; e quante volte ho ammirato la fortunata sorte del decrepito faggio della Valle Oscura, che nacque, vive e morrà là dove nato! Anch’io, come quel faggio, sono profondamente radicato nella mia terra. Quella terra che portavo sempre con me ovunque andassi, e che tenevo in una riposta parte delle mie tasche e che stringevo tra le palme come una radice s’abbarbica maggiormente ad una scoscesa scarpata che tenda a franare sotto di essa. Il solo odore di quella terra bastava ad evocare la mia infanzia felice, quando, ingenuo e leggero nell’anima, m’innamoravo di tutto e vivevo intensamente ogni momento, vedendo, udendo, annusando, assaporando quella terra che ora fa parte di me, delle mie ossa, della mia pelle, dei miei capelli, del mio spirito. Sì, del mio spirito, poiché anche uno spirito può radicarsi e crescere e morire nella sua terra. Sono giunto persino a sperare un’unione fisica con la mia terra, una “ierogamia panica”, come dicono i letterati. Ma questo allora non lo sapevo, poiché, quando si è bambini, prima si vive istintivamente e poi, solo più tardi, ci si fanno idee. Ma, purtroppo, quando giunge la riflessione e la saggezza, la freschezza delle prime sensazioni si è già appassita e si è persa in mille rivoli, tutti diversi dall’unica fonte da cui sgorgarono. Nessuna acqua ha maggior sapore di quella bevuta nell’infanzia e nessuna sensazione eguaglierà mai la visione immaginaria di un bambino. Spesso, ancora fanciullo, correvo fra le alte erbe di un maggio piovoso che mi uguagliavano in altezza, come in una foresta sterminata e misteriosa in cui gli uccelli erano sostituiti dalle farfalle e dai calabroni, dai bombi e dalle api. Sul suolo di questa foresta onirica correvano, quali neri bisonti e pesanti rinoceronti, seriosi coleotteri, come il cervo volante o il sicofante; il maggiolino o la cetonia dorata. Quel bimbo che ero allora, è ora prigioniero, rinchiuso nelle oscure carceri del mio essere adulto. Attorno a quel tenero cuore, pronto a intenerirsi per un nonnulla, la vita ha ora eretto barriere insormontabili e mura sempre più spesse. E la finestra verso il mondo esterno non è più che un’angusta feritoia. E il balcone da cui mi sporgevo pericolosamente alla vita è ora sbarrato da ferree ringhiere e rugginose inferriate, da cui trapela un mondo a riquadri sempre più netti e sempre più frammentati. Solo il contatto col nudo ventre della terra può ricondurmi, a ritroso, verso quel tempo beato della fanciullezza. Quel ventre che mi dette la luce e che, spero, sarà la mia tomba. Già, perché io voglio ritornare là da dove sono stato tratto e restituire ciò che la mia esistenza ha rubato all’esistenza della terra, privandola dei suoi elementi vitali. Quante volte ho calpestato con rispetto e venerazione la terra natìa e avrei voluto persino togliermi le scarpe come chi si accosta con religiosa devozione alle soglie di un tempio sacro. Nelle rocce vedevo altari e nelle nicchie rocciose tabernacoli, nelle limpide polle d’acqua altrettante fonti battesimali e, nella terra, sacri e festosi cimiteri, aperti verso il sole e l’azzurro. Quanti nomi di luoghi hanno eccitato la mia fantasia e quante volte ho planato a volo d’uccello sulle verdeggianti ed aspre pendici della grande montagna, dorate dal nascente sole. Molte volte ho sentito lo spirito di intere generazioni di uomini che su questa montagna soffrirono, gioirono, piansero e risero. Della loro presenza restano ovunque tracce che sfuggono all’occhio indifferente del corpo per apparire, invece, in tutta la loro significanza, al vigile occhio dell’anima. Questi uomini sono ora parte integrante della montagna ed il loro spirito è stabile, roccioso e puro come quella rosea balza che ora vedo davanti agli occhi, baciata dall’ultimo raggio di sole della sera. Cosi è la montagna: buona e forte ad un tempo. Di questa montagna mi sono nutrito come di un cibo corroborante e profondamente nutriente, di essa è intessuta la mia pelle, di essa è murato il mio scheletro. Essa è passata tutta intera nel mio spirito che, proprio su di essa, poggia le sue più solide certezze. Spesso salgo fino al vertice della montagna spirituale e sovente scendo nei suoi abissi fino al non plus ultra che qualcuno vi ha tracciato ai bordi dell’infinito. Più e più volte mi sono sentito il centro, il crocicchio di un infinito transito di forze opposte e complementari. I miei piedi affondavano come radici nella soffice terra ed i miei capelli, dispersi ai quattro venti, mi indicavano le mille direzioni della vita e della morte, del bene e del male, verso l’orizzonte. I miei occhi fissavano la fissità del cielo e tutto il mio corpo pareva protendersi verso l’alto in un anelito d’infinità. Spesso, camminando sul piano che conduce all’orizzonte, ho rischiato di perdermi poiché il mio spirito seguiva un’altra direzione: la verticalità dello spazio senza tempo. Il mio spirito, sgravato dal peso del corpo, saliva libero nello spazio infinito felice ed appagato, ma il mio corpo, restato in basso, sprofondava sempre di più, perché ormai privo della forza ascensionale data dall’anima. Solo nella terra trovavo, a volte, la conciliazione momentanea alle dilanianti contraddizioni della natura umana. Qui la terra si sporgeva verso il cielo e qui il cielo si chinava a toccare la terra. Qui tutto era concentrato, condensato, tutto era vicino, ma restava ben distinto. L’est e l’ovest si guardavano in faccia e comprendevano di non essere poi cosi distanti. L’oriente era l’alba e l’occidente il tramonto, il sud era il mezzogiorno, ed il nord la stella polare. Il tempo era quello delle stagioni e veniva scandito dal pendolo dell’anima. Quest’anima che era cosi lenta da frenare ogni episodio, ogni evento e da fargli assumere le dimensioni assolute e totali di fatto irripetibile ed eterno. Una nevicata, ad esempio, si perdeva nella fitta tormenta della sua origine e durava, durava e durava, finché l’anima non ne era sazia e completamente ricoperta fino all’ottundimento di ogni angoscia, di ogni dolore. L’inverno entrava per le strette porte dell’anima e raggelava ogni moto contrario alla sua felicità. La tramontana, gelida e poderosa, spazzava via i cattivi pensieri, quelli distruttivi, come una ramazza spazza le foglie cadute su di un viale, restituendogli la primitiva nettezza. L’algore riscaldava la mia anima come un ceppo di cerro il camino. In questo mondo di ghiaccio non vi era nulla che non fosse gelato. Così, di ghiaccio era il sole, gelida la terra e gelido il mare. Gelida era l’ubere pianura e gelide le edaci fiamme del fuoco giovanile che mi divorava dentro, incenerendo il mio sembiante esterno, sempre più spento e grigio. Ero finalmente padrone del tempo ed esso durava quanto io stabilivo dovesse durare per assecondare i ritmi della mia anima: centesimi del mio spirito pesante e contemplativo. Infatti, esso era pesante e concreto quanto e forse più della roccia che contemplava e sulla quale pareva sedersi e stendersi e dormire e sognare di avere un corpo leggero ed immateriale dal quale poter uscire come da un tempio greco che non avesse porta alcuna. Troppe volte questo corpo era stato la prigione, la tomba di quest’anima ed avevo sentito questo stridente attrito tra l’anima eterea ed il corpo greve. Ora, invece, grazie alla terra natia, tutto era pacificato, smussato, congiunto. Il corpo e l’anima si abbracciavano come due vecchi amici che si rivedono dopo lungo tempo e ritrovano nell’altro una parte perduta di loro stessi e non capiscono come abbiano potuto vivere separati per cosi tanto tempo. Qui, proprio qui, avveniva questa ierogamia, qui dove si sposavano due torrenti gorgoglianti ed orgogliosi come due guerrieri giovani e baldanzosi, restii entrambi a cedere di un palmo la strada all’altro. Continuavano cosi a fiancheggiarsi spalla a spalla finché, spossati ed estenuati dall’epico confronto, non cadevano esanimi, confondendo l’uno nell’altro le reciproche insegne, le mostrine e le stelle, per diventare un solo, unico, grande e pacifico corso d’acqua in rotta verso gli abissi del vasto mare. In quell’acqua lustrale, gelida e squisita avrei voluto lavare le mie pecche, le mie colpe d’essere uomo e di aver abbandonato quella Natura da cui io e tutti avemmo un giorno origine. Avrei voluto che quell’acqua avesse sciolto in me i grumi del pensiero, come la neve si scioglie al sole. Avrei voluto annacquare la mie umili certezze razionali, annegarle nel gorgo turchino dell’oblio. Avrei voluto mettere il guinzaglio ai mastini vigili sulla mia libertà, mettere la museruola alle cupe belve accanite sulla mia anima; avrei voluto abbattere le sbarre della mia cella, sia pure rivestita di broccati sontuosi, uscire da me, accusarmi, deridermi, maltrattarmi, rifiutarmi, morire e rinascere, nuovo, purificato, diverso, ma finalmente mio. Ed allora volevo correre per le lande sconfinate della mia nuova terra e scoprire e stupirmi e ridere e piangere, piangere e ridere e vivere, poiché allora avevo la vita e null’altro che essa. Volevo regredire al punto di partenza, riacquistare le perdute età dell’anima. Volevo rinascere a nuovo e piangere e ridere e confondere il pianto di nuovo col riso e di nuovo la realtà con l’idea, la pietra con me stesso. Pietra volevo tornare ed essere immobile, inerte materia consapevole dell’unità del tutto. Volevo essere eroso e spolpato dall’andare saggio del tempo e rimescolarmi alla pasta informe e duttile di altre rocce e divenire indistinguibile da esse, finché, di nuovo, sarei stato ristrappato al tutto ed il dolore sarebbe rinato. Vedendo i paurosi abissi che cariano la montagna mi venivano queste riflessioni: «Neri abissi della terra, il vostro buio è luce e il vostro vuoto pienezza. Nel vostro buio sfolgorante voglio accecare la mia vista troppo acuta. E precipitare voglio nel mare delle vostre tenebre e mai più emergere da esso. Affogare voglio nella vostra immensità; e il vostro silenzio sia la musica che mi culli in eterno. E la mia solitudine sia magnificata dalla vostra vacuità incolore, e il vostro nulla sia il mio tutto. Di vuoto voglio riempirmi e ritornare al nulla da cui ebbero origine tutte le cose. Silenzio, solitudine e tenebre siano i miei padroni ed annullino il mio essere nel loro tutto ripieno di nulla…». La terra mi aveva avvinto a sé, togliendomi ogni pensiero ed ogni identità e ne ero inconsciamente felice. Avevo perduto ogni capacità di distinguere le categorie inventate dall’uomo, come il bene ed il male, il bello ed il brutto. Ritornavo così a far parte della materia informe e caotica di prima della creazione, e, così immerso nel grande vuoto del nulla primigenio, potevo essere tutto ed assumere forme e pensieri nuovi, componendo e scomponendo i pezzi più multiformi di un mondo nuovo e di una terra nuova. Vivere su questa montagna era per me abbracciare gli estremi confini di un universo condensato. Con quattro sgambate salivo alla vetta e quello era allora il mio cielo e il mio paradiso. Da lì potevo afferrare le quattro direzioni dello spazio, distese verso l’orizzonte. Sceso nelle oscure caverne, potevo conoscere il mondo infero e, così, precipitavo nei vertiginosi abissi del mio essere d’ombra, che avevo sin lì portato in me senza saperlo. Risalendo il corso di un torrente, e ricercandone la fonte, ricomponevo i pezzi sparsi del mio essere e le ragioni del suo esistere. Qui imparavo tutto ciò che c’era da sapere sugli esseri e le cose, sull’uomo e su Dio. Qui leggevo come in un libro aperto le lettere tracciate a caratteri vegetali, animali e minerali. Qui ho raggiunto la vera sapienza, quella fatta di saggezza e di consapevolezza della propria pochezza e vanità. Qui ero ridimensionato al livello che compete all’uomo: un essere pari a tutti gli altri che popolano la terra. Mi sentivo uno sprovveduto, un analfabeta persino di fronte ad un ghiro, ad un moscardino che, molto meglio di me, sapevano vivere e comprendere quell’ambiente. Sì, anche un lupo, se non lo si fugge, può esserti fratello e maestro ed insegnarti le vie aperte dalla Natura alla conoscenza del mistero di cui essa è parte. Così passavo di scoperta in scoperta e scoprivo cose di cui allora non vedevo il quadro d’insieme, ma che mi avrebbero condotto, più tardi, molto, più tardi, all’intuizione di una finalità superiore insita in ogni cosa, anche la più apparentemente banale. Delle cose, non vedevo che ciò che guardavo, ma non contemplavo che ciò che giaceva nel fondo del mio spirito. Tutto era sacro in questo luogo e, seppi poi, che qui, in vetta a questo massiccio, si ergeva un tempio possente, coronamento estremo di un altro tempio ben più imponente: l’intera montagna. Volevo seminare il mio nome perché vegetasse rigoglioso e fiorisse e fosse reso sacro dall’Eden della nera terra dove l’avrei gettato. Seduto di fronte alla nera bocca beante di un pauroso abisso, mi salì dal profondo una invocazione, come dalla grotta salivano le nebbie. Ed invocai il dio Holo, deità umbra delle profondità telluriche, con queste parole: «A te un altare voglio erigere, Spirito della montagna, di sudore e sangue impastarne la calce, di lacrime e riso voglio farlo e, facendolo, cantare la tua gloria voglio, spirito del mare, dell’alto e del basso unico reggitore, delle infere regioni fiato possente, che le nubi sollevi e degli uomini schiacci l’insensato orgoglio. A te un altare di carne ed ossa, di bontà e cattiveria erigere voglio, Spirito della nera terra che ci volle un giorno innalzare al di sopra di essa per sporgerci ad afferrare il cielo. A te un altare di sogno e realtà, di neve e di fuoco voglio erigere, spirito delle sorgenti, che dai prosciugati ossami della terra, con vivificante impeto, grandi e gelidi fiumi fai scaturire. A te che fai fiorire il deserto, Spirito della pioggia, un altare di sabbia e fumo erigere voglio. E quando il tuo altare sia costruito, su esso voglio ardere le mie carni, Spirito del vento, e le aeree ceneri posare voglio sul tuo ansante petto, Spirito della vita. E le mie parti in una sola essenza riunire voglio, Spirito nella morte e, nella morte, trovare la vita e, nell’olocausto del fuoco, al fuoco il mio riso mostrare, Spirito della gioia e del dolore, re del tutto e re del nulla. Eterna unità, Spirito immenso ed indiviso, fa di me, folle scoria del tutto, molecola essenziale del tuo tutto. In te, Spirito, voglio sparire e lasciare la dolorosa coscienza che dilania il mio Spirito, in te morire voglio e il desiderio supremo in te spegnere, annegando nella folle coppa ricolma del tuo vino rosseggiante e, bevendo, ridere ebbro della tua felicità, per sempre, Spirito…». Mi rialzai, poiché ero inginocchiato e, ascendendo alla vetta, calcai profondamente il piede nella neve intrisa di pioggia e sperai che quell’impronta sarebbe rimasta in eterno a testimoniare il mio rispettoso passaggio su questa terra madre, ma un sole impetuoso sgombrò il cielo da ogni nube. Man mano che salivo, sentivo cadermi di dosso le rovine pesanti del mio vecchio essere e, salendo, mi alleggerivo sempre di più, quasi che tutto il superfluo della mia natura morisse per lasciar posto all’essenza primigenia, all’archetipo, al modello, allo spirito. Giunto in vetta, ero tanto leggero che fui sul punto di essere trascinato via da una leggera brezza primaverile, come una piuma sollevata dall’alito caldo di un bambino. Avevo subìto una completa metamorfosi, la mia terra mi aveva preso, disfatto, rimodellato, cotto col suo sole, bagnato con la sua acqua, asciugato col suo vento. Ero come la farfalla che esce dall’orrendo bozzolo per dispiegare le ali verso l’azzurro del cielo. Ero cresciuto interiormente, la terra mi aveva fortificato e incivilito, indurito all’esterno e intenerito nell’anima. Speravo soltanto di entrare in qualche riposta pagina del libro della montagna perché altri, istruiti da esso, potessero riprovare ciò che io avevo provato e portare la loro pietruzza alla infinita costruzione di questa montagna e di quella interiore. Chiunque avesse percorso questa brulla e ventosa cima con intelletto d’amore l’avrebbe resa più elevata, spostandone il vertice sempre più in alto. I fianchi più aridi e petrosi si sarebbero ricoperti di boschi ubertosi, le grotte si sarebbero approfondite e le soffocanti strettoie si sarebbero ampliate sino a divenire enormi e ariosi saloni. Gli animali estinti sarebbero ritornati e vi avrebbero prolificato. Le grotte avrebbero risuonato di nuovo delle litanie di santi romiti foresti e tutte le lacune sarebbero state colmate. Sceso sotto un’immane falesia rocciosa, pensai che qui avrei scavato una nicchia, lontano dalle case abitate dagli uomini, e qui avrei dormito, accordando il mio respiro con quello della montagna. L’uomo è terra, da essa è stato tratto, con essa vive ed in essa ritorna; ma la terra è anche il suo cielo, il suo paradiso e solo dal suo contatto possono scaturire tutti i beni dell’anima. Beni che io provai al mio primo contatto con la notte, la grande, immensa notte, della montagna. Sprofondato in una fitta e solenne faggeta dalle chiome colossali, che s’allungavano come palme di mano per chiudere ogni accesso alla luce solare, aspettai la notte. L’aspettai come s’aspetta un evento miracoloso, una apparizione mistica. Ed aspettando, preparavo il mio essere alla sua accoglienza. Speravo che quando la notte fosse giunta non mi avrebbe preso alla sprovvista. Così oscuravo lentamente il mio essere, richiudendomi in me stesso, nel mio profondo, nei neri abissi della mia anima. E la notte cominciò a montare dalle caverne, dalle forre, dalle insondate profondità della terra. La vedevo venire da ogni parte e circondarmi, piano piano, dalle estremità dello spazio. La luce si ritraeva lentamente al contatto delle tenebre e, quella che non riusciva a fuggire verso lo spazio, veniva inghiottita ed annullata. Ma, tuttavia, ancora resisteva, stretta dall’abbraccio delle tenebre e, nella lotta furibonda, riusciva ancora ad emettere bagliori e macchie corrusche di sangue all’orizzonte. La restante parte veniva risucchiata verso il cielo da dove era scesa e tornava ad imbiancare le albe di altri mondi e a colorare i lori arcobaleni di tinte mai viste. La notte calava sugli esseri e le cose come uno scuro velo di lana grossolana riscalda il cuore di coloro che vi si avvolgono. Essa era infatti una grande madre che cullava i suoi figli prima di addormentarli ed appesantire le loro palpebre. Io mi affidai ad essa ed essa mi prese e mi cullò. Ed il tempo cessò di correre e lo spazio si dilatò; alcuni suoni si spensero, altri si intensificarono divenendo unici ed ossessivi. Così quella cascata che di giorno appena percepivo gorgogliare in lontananza, ora si era incamminata verso di me a grandi passi. Più le tenebre si infittivano, più il suo rombo si dilatava, sino a che sentii le sue acque scrosciarmi tutte intorno ed il loro suono mi penetrò nell’anima. Ne avevo paura. Sapevo che la sua monodia celava mille altre voci, mille altri movimenti degli esseri. Mi sentivo circondato, perso, senza scampo. A forza di sentirla riuscivo a distinguerne le tonalità e i suoni di fondo dei mille rivoli che si coalizzavano come strumenti diversi per suonare il grande concerto delle acque. Sentivo gli sgocciolii, gli stillicidi più tenui, simili a discreti ottavini. Sentivo i getti più grandi, simili a lamentosi flauti e gli scrosci intermittenti, simili a trombe. E, su tutto, il roboante tuono dell’eco, che rimbalzava all’infinito da una roccia all’altra, portando suoni umidi fin nelle regioni più remote della terra. Anche il deserto, pensavo, ne sarebbe stato irrorato. Tutto era scuro al di sotto della coltre delle chiome degli alberi, ma, al di sopra, un latteo chiarore ancora permaneva e mi permetteva di distinguere nettamente ogni lineamento dei rami, ogni margine delle foglie, ogni lacuna delle fronde. I massi di calcare più puro conservavano la luce, una luce pallida, fredda ed infeconda. Ogni masso pareva rilucere di un biancore niveo ed incontaminato. Intanto, negli intervalli sonori della cascata, incominciavo ad udire altri suoni. Animali reali ed altri mostruosi dovevano muoversi intorno a me e spiarmi e studiarmi per carpire il segreto di questo sconosciuto che osava invadere i loro estremi rifugi nella più estrema delle dimensioni: la notte. Mi parve di udire scalpitii, sussurri, trapestii, richiami striduli e lugubri, ed ancora soffi, sbuffi, ululati, guaiti, guagnolii di un mondo in agguato di cui, qua e là, intravedevo fugaci sagome, enormi ombre indefinibili, ed occhi, mille occhi lampeggianti come fiaccole di brace ardente, rosseggianti occhi che, a grappoli, si spostavano follemente su e giù per il pendio, muovendosi in ogni direzione. Poi, d’improvviso, udii un brusio leggero farsi marea montante di suoni e correre verso di me, finché, sentii una gran folata di brezza scompigliarmi i capelli ai quattro venti. Il vento accrebbe l’immensità della notte e la sua sacralità. Esso aumentò progressivamente fino a farsi bufera. Come mare in tempesta, il vento mi riversava ondate d’aria gelida in faccia e, poi, si ritraeva e, allora, pareva cessare, come la risacca dell’onda riporta indietro le acque. Ma subito risentivo il rumore crescere ed il vento investirmi in pieno, facendo traballare e dondolare l’amaca sulla quale ero disteso e fremere e garrire le foglie degli alberi come manifestini propagandistici. Ad ogni ondata che cessava temevo l’ondata successiva, poiché non sapevo mai quale entità avrebbe assunto la forza del vento. Questo, infatti, si scapicollava giù dai pendii intirizziti, si abbatteva contro le rocce, si divideva in mille folate che, aggirando la foresta, si ricongiungevano poi in un fragore ed in un cozzo infernale di ramaglie e frasche, strame secco ed erbe verdi. Tutto si mischiava a tutto ed il vento si attorcigliava con miriadi di fili attorno ad ogni cosa. Anch’io ne ero stato impigliato e, preso in questa fitta rete, non sapevo se fuggire, o ritrarmi fino agli occhi nel mio sacco a pelo. E’ strano, ma tanta aria pareva soffocarmi, togliendomi il respiro. Ero angosciato, impotente, solo. Sì, il vento moltiplicava la mia solitudine ed essiccava il mio ardore. Pensavo che esso avrebbe disseccato la terra e prosciugato ogni sorgente, ogni polla, ogni umidità. Per fortuna fui distolto da questi pensieri distruttivi quando un bianco raggio di luna mi sgocciolò in faccia come latte appena munto. Alzai la testa e vidi il cielo rischiarato da un freddo albore quasi metafisico e sicuramente irreale. Non ne vedevo la sorgente ma tutto il mio essere se ne nutriva e ringraziava di questo sole a mezzanotte, piovuto dal cielo come manna, a rifocillare la mia anima assetata di luce. La foresta si allagò di luce e questa dilagò come una macchia d’olio che si spande sopra la superficie dell’acqua. Le cose erano rese irreali ed i loro contorni evanescenti e diafani come fumo. La terra, la mia terra, veniva disfatta e rimodellata dalla luce e dalle tenebre primordiali, stranamente unite in questa magica notte. La notte era sposa della luna piena ed i confini tra luce e buio, tra realtà e fantasia erano tanto sfumati da perdersi uno nell’altro, a seconda del vento che, spostando la mai amaca, mi spingeva ora in una dimensione, ora nell’altra, poiché io dormivo ora sull’instabile filo teso tra due mondi. Quando ero spinto verso il mondo della fantasia, allora sognavo e sognavo di essere silenzio, quel silenzio che avevo sempre vanamente ricercato. E finalmente, verso l’alba, si fece silenzio. Il silenzio invase tutte le creature del bosco e gli alberi e le pietre e il sonno calò a pacificare un mondo alla ricerca di equilibrio. Mi svegliai ad un’ora antelucana. Ma già percepivo che la terra si preparava al risveglio e che il suo sonno si faceva piano piano più leggero, sino a divenire dormiveglia e, il dormiveglia, torpore e, il torpore, coscienza di dormire a metà e di avere l’altra metà già con un piede nella veglia. Ma l’essere desto non aveva la forza di trascinare la parte sognante, molto più pesante di lui, nel mondo della luce. Era l’essere sognante che sognava di essere desto e non quest’ultimo ad avere coscienza di dormire e sognare ancora. Ad un certo punto, ebbi coscienza di sognare e, allora, volli sottrarmi al sogno che mi inchiodava nell’immobilità sacrale dell’anima, ma non riuscii a smuovere il mio corpo, simile com’era ad un pesantissimo monolite senza vita. Ma l’alba, che saliva da oriente col suo candore niveo, mi ridette vita poco a poco. E la luce si attardava nel cielo e non si decideva a scendere sulla terra. Il tempo durava a lungo e gli esseri parevano spazientirsi di questo ritardo, poiché era da tempo che si erano destati, mossi, preparati ad affrontare le diuturne fatiche della giornata. Il bosco cominciava a riempirsi di polle di luce flebile e laghi di biancore là dove lo strato dei rami si rompeva per lasciar trapelare la luce. Il mondo pareva rinascere a nuovo ed essere vergine, intatto, puro e tutte le sue possibilità parevano essere intatte, coperte da questo mantello di algido biancore. Ma il risveglio non mi piacque affatto, perché fu brutale e, con il giorno, ritornò il tempo e, con il tempo, lo spazio definito, il giardino incantato , l’hortus conclusus nel quale qualcuno ci aveva messi a vivere, ignari dei suoi confini e del perché del suo esistere. Le pietre tornarono ad essere solo dei minerali, gli alberi solo dei vegetali, tutto si rivestì della propria limitatezza e finitudine ed io indossai la stretta corazza che difendeva e conservava la mia pochezza. Uscito dalla foresta, camminai fino ad una grande balconata di roccia e, da qui, estremo limite della montagna, prora puntata verso l’infinito, mi sentii la polena di un roccioso bastimento che solcava i mari tempestosi della mia fantasia. Ma le acque venivano tagliate dalla prora del bastimento ed il solco tra realtà e fantasia si faceva sempre più netto e lacerante. E questo perché crescevo e, crescendo, mi allontanavo dalle cose e le vedevo sempre più distanti e, per vederle, dovevo salire sull’apice dell’albero maestro e sporgermi e prendere il cannocchiale deformante della ragione e, così, mi accorgevo che il limite delle cose, che prima toccavo con mano, mi sfuggiva sempre di più e l’orizzonte si allontanava e la terra si inarcava rotolando come una vivente bilia in un universo sempre più oscuro. Ero solo, sempre più solo in questo bastimento. Tutti i compagni fraterni di viaggio mi avevano abbandonato, dagli animali agli uomini. Cercavo ancora, tuttavia, di guidare il vascello verso una deriva onorevole per me, verso un’isola di utopia ove avrei potuto ricostruirmi una vita a mia misura. Quante lune e quanti soli sarebbero dovuti passare per l’arco del cielo prima di vedere quella terra tanto agognata e prima che la nave si fosse infranta contro gli scogli immaginari di quell’isola? Allora avrei potuto vedere due soli al tramonto e tre lune nel cielo, avrei potuto afferrare un azzurro lembo di cielo come un soffice lenzuolo di seta e farmene una calda coperta e dormire nel cielo e volare sulla terra. Sì, avrei voluto volare, come a volte sognavo, sgravato dal fardello del corpo, ma volare a poca altezza dal suolo e volare davvero sopra le case sopra i cancelli gli orti e le contrade. Poi planare su valli fiorite dove all’olmo si abbraccia la vite. Avrei voluto confondermi ai crochi violetti, alle rose purpuree, alle giallissime primule, alle globose scarpette di Venere, alle campanule splendenti, e passarvi in mezzo, rimpicciolito come un ape, e vederli come boschi millenari e posarmi sopra di essi e suggerne il nettare. Avrei voluto tutto questo ed altro ancora, ma il mio vascello si infranse contro gli scogli della realtà e il relitto fu fatto a pezzi e le sartie e le gomene, le alberature e le vele furono dilacerate, inghiottite dai flutti, corrose dal sale, imputridite dalle acque, erose, spolpate, rese marcescenti grumi galleggianti di materia in disfacimento. Un sole troppo reale ne mostrava la rovina e le lacune e le bruciava coi suoi raggi troppo caldi. L’acqua le raffreddava cosicché non fossero incenerite ed il loro travaglio durasse in eterno. Quando queste riflessioni cominciavano ad intristirmi, fui rallegrato dal pensiero che, in fondo, la cosiddetta realtà era la più sbrigliata fra le fantasie che mente umana avrebbe mai potuto concepire. Seduto su uno sperone roccioso detto Capetèllo, mi meravigliai alquanto del miracolo della sua esistenza, mirabile e precario equilibrio mantenuto poggiando una mole immensa su due o tre pietruzze instabili e fessurate dal gelo. Tutto era miracoloso attorno a me e la primavera, che si schiudeva, mi mostrava orizzonti di distese fiorite. Odori e olezzi vari montavano dalle profondità della terra, odori forti carichi di vitalità vegetale. La Natura spezzava il giogo dell’inverno ed esplodeva, grazie al dono prezioso delle piogge, che il cielo le aveva fatto. Mi chiedevo come mai questa pioggia leggera avesse deciso di lasciare il cielo per venire a riposare su quelle verdi colline che ora mi apparivano all’orizzonte e che parevano donarmi una felicita’ eterna. Percepivo ardere in me il fuoco della speranza in un avvenire migliore. Lo sentivo, poi, riprendere vigore e scaturirmi dall’anima, riscaldando tutto il mio essere. E l’aprile mi spalancava le porte del suo profumato giardino. La terra mutava esteriormente, ricoprendosi di abiti sgargianti ed io ne ero rallegrato nel profondo. L’alito profumato della primavera doveva essere penetrato anche nelle profondità della terra ed anche i cimiteri dovevano essere fioriti, e la morte stessa non faceva più paura. La terra mi aveva insegnato la profonda necessità di ogni cosa su questo pianeta, che se ne andava errando per i cieli. Ero felice poiché vivevo senza lacerazioni in due mondi contemporaneamente, quello reale e quello immaginario e il transito tra i due era facile e scorrevole sia in un senso che nell’altro. Spesso il mondo immaginario mi appariva più concreto e reale di quello terrestre ed allora prendevo armi e bagagli e mi ci trasferivo. Questa libertà, tuttavia, mi era concessa solo dalla mia montagna, poiché, qui, tutte le dimensioni si incrociavano e si fondevano in un fulcro immaginario. Io mi disponevo nella direzione di queste forze e potevo così vivere nell’alto e nel basso, nell’al di qua e nell’aldilà. Mi piaceva soffermarmi su questo crocicchio cosmico e restare indeciso sulle direzioni da prendere, finché, vedendo un volo di gracchi corallini, non decidevo di incamminarmi in quella direzione. E mi incamminavo e camminavo solo per il gusto di camminare, senza meta e senza utilità. Era questo ciò che io definisco il camminare puro, l’archetipo del movimento, privato di ogni finalità utilitaria. Ma, mio malgrado, strada facendo, trovavo mille e mille ragioni al mio gesto imponderato. Le trovavo per strada, soffermandomi ad osservare un fiore od un insetto, un sasso o un ruscello. Sì, ero proprio sull’asse del mondo, sul quale camminavo in su e in giù, accordato col movimento delle sfere cosmiche. Non vi era soluzione di continuità tra gli inferi e il paradiso, né tra uomo e Dio. C’era solo da camminare, camminare e camminare ancora verso l’infinito e, prima o poi, si sarebbe arrivati ovunque si volesse giungere. Qui la vita era figlia della morte e pensavo a quella nera, feconda terra da cui sbocciavano, a migliaia, fiori profumati. Essa era l’estrema metamorfosi di esseri viventi che un tempo popolavano i mari. Con la loro morte costruirono l’edificio di questa montagna ed ora, morti per la seconda volta, alimentavano la vita, rimescolandosi alla morte di altri esseri. La montagna era lì, la vedevo, essa era la mia casa, il mio letto, la mia patria terrena e celeste, era la mia vita era me stesso e, per tutto questo, l’amavo di un amore immenso. Amavo la sua gente, che per millenni aveva convissuto sotto la sua imponente mole, sotto la sua ombra, sotto la sua protezione severa. Gli uomini originari di questi luoghi avevano tratto dal macigno il pane e il vino, il fuoco e l’acqua e l’avevano modellato con le loro eterne fatiche, logorandone, come goccia incessante, i fianchi, aprendovi tratturi, sentieri, vie pervie ad un pellegrinaggio sacrale, di cui io mi sentivo l’estremo continuatore in quest’epoca in cui tutto procedeva in senso contrario alla mia marcia a ritroso nel tempo. Per avvicinarmi ai misteri della montagna avevo dovuto distruggere le mie certezze, cozzare contro la valanga di parole vuote, di immagini false di cui mi ero, mio malgrado, nutrito fino ad allora. Rivestito com’ero di cose vane e futili, che soffocavano il mio essere, sentivo tuttavia un richiamo, una voce misteriosa che mi chiamava verso quella cima tondeggiante e rocciosa tanto che, ovunque andassi, non potevo impedirmi di ricercarne il profilo, i lineamenti cari e familiari. Anzi, fu solo con la lontananza, e nella lontananza, che ne compresi il valore e l’importanza. E’ solo allontanandosi da un enorme edificio che se ne possono cogliere i lineamenti, il profilo, i tratti salienti e caratteristici. E, dovunque andassi, la montagna rimaneva il mio centro gravitazionale. Mi bastava scorgerla, per sentirmi a casa e rientrare in me stesso, qualsiasi umore avesse scosso la mia anima. La sua cima incappucciata di nubi, o netta e tagliata nel diamante di un cielo di ghiaccio; la sua cima imbiancata dalla prima neve, o i suoi fianchi sanguinanti di rosse macchie di faggio erano lo specchio e la sorgente delle mie stagioni interiori, scandite sui ritmi della Natura. Accordandomi con la montagna, era come se l’anima separata dal corpo rientrasse in esso e gli donasse un benessere senza difetto. Solo grazie al rapporto intimo che avevo instaurato con la montagna potei conoscerne e svelarne alcuni dei segreti che essa preservava da sguardi indiscreti, da intenzioni sacrileghe. E la solitudine del mio vagare fu il vero segreto di questo connubio tra un ragazzo ingenuo ed imberbe ed una montagna decrepita e rinsecchita che mi mostrava ogni sua ruga, impressa nel calcare scabro e fessurato dei suoi fianchi. E le grandi lacune interne dovevano ospitare la sua grande anima che si esalava da ogni pertugio, da ogni falla, da ogni fessura. La mia fu una ierogamia, e questo lo concludo immodestamente oggi, ma allora lo vivevo ed era molto più bello. Poiché se l’uso della ragione mi ha rivelato alcune cose, molte altre me ne ha celate per sempre. Credo che non si possa avere alcuna conoscenza delle cose che esplorandole da soli. L’intimità fa scaturire molti beni, soprattutto per l’anima. Oggi è tornata la diffidenza e la distanza. Il mio essere si ritrae e la ritrosia genera incomprensione e, l’incomprensione, diffidenza e, la diffidenza, paura o, peggio, indifferenza e distacco. Ritornando sui luoghi sacri di un tempo, ora provo rimpianto. Rimpianto di un rapporto privilegiato, forse perduto per sempre. E la montagna ha riassunto la sua accigliata presenza, la sua inattaccabile alterigia ed io ho riacquistato, ahimè, i miei timori, le mie ritrosie, le mie inquietudini. Già, proprio così, la montagna è un essere inquietante per chi non la conosca e non ne superi la naturale barriera di tempo e di spazio, la soglia di tempio sacro, con amore e timore, rispetto e venerazione. Bisogna armarsi d’amore e, l’amore, porta alla conoscenza e, la conoscenza, al rispetto e, il rispetto, alla venerazione. Questo cerchio si è interrotto in me, ora ne sono fuori, ma posso riprenderlo, ricominciando da dove iniziai, dalla prima tappa: l’amore. Ora provo paura di fronte ai grandi misteri che il vuoto ventre della terra tiene serbati; di fronte allo scatenamento degli elementi nelle notti invernali; al silenzio troppo spesso dei suoi boschi e delle sue forze. Infatti, di fronte ad essi l’uomo viene ridimensionato alla sua piccolezza e la mente si perde e l’anima si sgomenta. Molte volte, infatti, all’inizio delle mie avventure, mi capitò di sentirmi un nonnulla di fronte alla rarefazione di punti di riferimento, di appigli, di approdi a misura della mia limitatezza. Ovunque cercassi di aggrapparmi, le mie mani erano troppo piccole per afferrare il mistero, per sfiorare una verità. Ed allora restavo impietrito, raggelato dalla paura, impotente, solo, veramente solo, perché privo di me stesso e completamente disanimato. Altre volte mi prendeva il panico ed allora fuggivo inconsultamente di fronte ad uno schianto, un sibilo, un boato. Tornavo allo stato di puro istinto, ed allora ero come gli altri animali. Un freddo intenso mi prendeva alla testa, un brivido percorreva il mio corpo ed una forza sconosciuta e potente mi indirizzava in un luogo preciso, ma per me ignoto. Questo mi capitò nei cunicoli delle grotte, quando, credendomi incastrato per sempre nelle viscere della montagna, ne sentii tutto l’immane peso sopra di me e mi credetti perduto, impotente, finito. Il mio istinto vitale di sopravvivenza entrava in azione e mi dava una forza mai provata, ma una forza caotica e folle, distruttiva e cieca. La luce, la luce era il mio richiamo, proprio quella luce dalla quale ero fuggito per riposare la mente e gli occhi nelle tenebre eterne del monte. Tornare alla luce era come rinascere per la seconda volta ed apprezzare, di nuovo, tutto al massimo grado e ringraziare perfino dei dolori e delle escoriazioni che, perseguitandomi, mi dicevano che ero vivo, vivo e vegeto. Di questo ringrazio la montagna, di avermi insegnato il valore delle piccole, essenziali cose della vita. Il grande valore della fatica e del sacrificio per i quali soltanto l’uomo può chiamarsi uomo. La fatica, spesso provata in lunghe, estenuanti escursioni, quando le gambe si piegano, i geloni bruciano, il freddo ti beve, mi ha insegnato ad apprezzare il calore della casa, un pasto caldo, una sedia, dei panni asciutti, un buon bagno, un buon letto su cui coricarsi a meditare, guardando il soffitto che, meditando, scompare. Ed allora appare solo il cielo e le stelle e, fra esse, si intravede la luce del paradiso. La montagna, quella vera, è, però, la montagna invernale, quando i pianori sommitali sono sferzati dalla tramontana e la neve pungente e gelata soffoca ed acceca. Allora lo spirito della montagna ti investe e ti porta sulle sue ali fino alle massime vette del cielo. Più e più volte mi capitato di essere colto da una tormenta e di esserne avvolto e di smarrirmi e di perdere la sensibilità delle dita. Più e più volte mi sono scaraventato giù dalla vetta per fuggire il ciclone che mi inseguiva. E sono caduto e mi sono rialzato come in un giuoco, scivolando sui rami gelati del bosco o sulle foglie fradice. Ma sempre, immancabilmente, la tormenta mi raggiungeva e mi rallegrava di coriandoli di neve, raggelando le tensioni, le angosce. Sempre la Natura mi aiutava spalancandomi porte in cui entrare ed aspettare una schiarita. Le grotte erano quelle porte, e lì mi rifugiavo ed allora quella era la mia casa, il mio mondo, me stesso. Raggiunsi tanta familiarità con la montagna che mi si rivelarono nuovi sensi fino ad allora sconosciuti. Riuscivo stranamente ad intuire ove si celasse l’ingresso delle grotte, fosse esso un pertugio minuscolo sotto un masso, o una fessura in mezzo ad un prato. Mi sentivo come calamitato, quasi percepissi un richiamo, un gemito della terra che mi spingeva a ricercarne la fonte, le bocche di emissione. Da esse, forse, si esalava lo spirito della montagna col quale ero allora perfettamente accordato. Ed era vivificante davvero il contatto con questi fiati racchiusi per tanto tempo nella terra. Il loro gelido contatto mi rinfrancava, corroborando il mio corpo ed il mio spirito. Qui ricaricavo il mio essere e l’energia durava a lungo e mi dava pace ed allegria. Facevo cosi il pieno di sensazioni ed emozioni, di profumi, suoni, colori, forze magnetiche e spirituali e, tutto questo, dura ancora ed solo un surplus quello che ora cerco rozzamente e superficialmente di esprimere su queste pagine. Il resto fa parte di me stesso e non potrei attingere ad esso se non staccandomi completamente da me. Il ricordo mi permette di accendere quelle forti sensazioni di allora che, altrimenti, rischierebbero di spegnersi o, almeno, di affievolirsi alquanto. Travasando in lettere, parole e frasi questo troppo pieno mi sento alleggerito ed alleviato. E’ strano come fiori, frutti, profumi, animali e rocce possano farsi parola, lettera, suono, immagini! La ragione di questo sta forse nel fatto che tali elementi sono già lettere e parole di un codice a noi ignoto, ma che regola il cosmo e la Natura, imponendo loro le sue leggi e i suoi decreti. Forse la mia felicità di allora risiedeva nello svelamento di qualche lettera di questo alfabeto nascosto, che mi apriva il cuore all’intuizione di un grande disegno cosmico per allora inconoscibile. Ma già il fatto di presentirlo mi dava gioia e felicità. Anche la più piccola scoperta aveva per me un valore incalcolabile, giacché avevo coscienza della sua piccolezza, ma anche della sua enormità. Solo, sulla montagna senza tempo, viveva assieme ai suoi amanti di varie epoche: l’esploratore Lodovico, forse frate; Adramando, il temerario; Paolo Giustinani, il santo fondatore; Domenico Loricato e Tomasso, gli anacoreti; Girolamo Gabrielli, il conte con intelletto d’amore; Giambattista Miliani, l’esploratore scientifico, e, forse, con Girolamo, il santo dottore, ed Orlando, il cavaliere baldanzoso. Costoro avevano riempito di lettere e segni il gran libro della montagna di cui appena iniziavo a leggere la premessa, ma di cui, stranamente, alcune pagine mi erano già note e pagine fondamentali. I miei scarponi, che tante volte avevano calcato quella terra promessa, ne conoscevano ogni recesso, ogni andito, ogni nascondiglio, anche il più riposto. E dalla terra erano stati consumati, logorati, erosi. Avrei potuto ritrovare il cammino seguendo le loro mille impronte, impresse ovunque come una rete che avvolgeva l’intera montagna. Molto spesso, pur non volendolo, prendevo a seguire una pista percorsa chissà quando e mi ritrovavo puntualmente, immancabilmente, in un punto prefissato dalla mia anima, un locus amoenus, atto a ripararmi da me stesso e dagli altri. Avrei potuto liberarmi, penetrando in una nicchia o accucciandomi in una tana, persino dalla mia ombra, che mi perseguitava, seguendomi sempre ovunque andassi. Sì, la montagna mi liberava anche dalla mia presenza ossessiva, poiché, dedicandomi alle osservazioni, non pensavo più a me stesso. Lassù imparai l’umiltà e accettai il posto che la Natura mi aveva dato nell’universo. Lassù conobbi me stesso e, conoscendomi, imparai a stare con gli altri. Da allora in poi ci sarei stato per scelta e non per paura di stare da solo. Non dipendevo più dagli altri e, cosi, potei stare con loro da pari a pari. Imparai ad ascoltare il prossimo, prima vera tappa verso la conoscenza di me stesso. E, allora, nessuno mi parve più inferiore, poiché avevo imparato che lassù, sulle montagne, si è tutti uguali. La persona più umile portava in sé un tesoro inestimabile che ora volevo conoscere e rispettare. Conobbi cosi pastori e agricoltori e appresi da essi più di quanto qualsiasi professore avesse mai potuto insegnarmi. Imparai che la saggezza era molto superiore alla sapienza, perché passa al fittissimo ed inesorabile vaglio del più severo dei maestri: la vita. Mi piaceva parlare coi vecchi pastori, sul cui volto leggevo pagine di vita, gioie, pene, durezze e tenerezze. Mi rivolgevo a loro con rispetto e quasi venerazione e, con questo atteggiamento remissivo, ottenevo da loro molto più di quanto avessi mai sperato. Conobbi i nomi dei luoghi, il loro uso antico, storie di vita vissuta che mi commossero e mi rallegrarono. Come quella di una donna smarritasi sulla montagna a cui, dopo lunghe preghiere e sull’orlo della disperazione, apparve un nero corvo che l’accompagnò fino ad un punto noto da cui ella poté scorgere il paese e ritornarsene così, sana e salva, a casa. Oppure quella di un’altra donna che, rimasta sola a dormire sulla montagna con il gregge, fu minacciata per tutta la notte da un branco di lupi e si salvò, grazie all’aiuto del suo cane, rifugiandosi nella sua capanna. Imparai poi il valore dell’attesa, un’attesa speranzosa di un evento che, aspettandolo, si sarebbe certamente verificato. Imparai a dosare le forze e a capire il mio corpo conoscendo cosi il mio limite e la frontiera del mio coraggio. Ma, soprattutto, imparai il rispetto, rispetto per ogni cosa che esiste e che, per il solo fatto di essere lì, acquista un’importanza ineguagliabile ed assoluta. E’ lì e deve restarci, pensavo. Non volevo toccare nulla, odiavo rompere, modificare, strappare, cogliere, riportare. Anzi, avrei voluto arricchire quel posto e portarvi persino la terra che, nei millenni, era stata erosa dagli agenti atmosferici e trascinata nella valle dal dilavamento. Mi piaceva la durezza del calcare, la sua fermezza, la sua scabra superficie. Se avessi potuto, avrei innalzato il vertice del monte e l’avrei portato ad altezze indefinibili che solo la mia fantasia fervida poteva concepire. Imparai il rispetto verso tutto ciò che è ben fatto, ben costruito, poiché esso simula e ripete, sia pur grossolanamente, la creazione divina. Ammiravo il grande eremo che aumentava l’imponenza di uno sperone roccioso e lo coronava senza che, tra esso e la roccia, vi fosse una lacuna, una tonalità di colore che stridesse con lo sguardo d’insieme. Amavo la mirabile armonia instauratasi tra esso e l’ambiente e mi stupiva che l’opera dell’uomo avesse potuto forse addirittura migliorare quella di Dio. Mi piacevano quelle volte a botte che simulavano la frescura e le tenebre di una grotta. Mi piaceva la vela di quel campaniletto, esposta ai quattro venti. Ero estasiato dall’abside di quella chiesa rivolta verso il sole nascente, verso il luogo del bene e del riferimento spirituale: l’oriente. Amavo la sua struttura esile e robusta insieme, aerea e terrestre, guerresca e mistica. Era quello un luogo privilegiato in cui uomo e natura non si opponevano, ma si amalgamavano come comuni creature di Dio. Un luogo cosi umile era più dignitoso e sontuoso di qualsiasi reggia. Qui si entrava da perdenti e si acquistava la gloria immortale. Qui si sposavano e si confondevano l’eccelso e l’umile, il quotidiano e l’eterno, il bonario e l’altero, il pane e l’ostia, il fumo e lo spirito. Lì, cultura e Natura si fondevano e, ruotando intorno al chiostro, si compiva il giro dell’universo e, nel suo giardino, vi era l’Eden. Da qui, spesso partivo per le escursioni e, qui, sempre ritornavo, potentemente attratto da una forza che faceva muovere le mie gambe senza che lo volessi. Anche questo era un universo in miniatura e non mi stupivo affatto che quei religiosi lo avessero scelto come loro stabile dimora, rifuggendo il chiasso del mondo. Universo nell’universo era l’eremo dove paganesimo e cristianesimo si stringevano la mano e l’uno serviva da base e fondamento all’altro. Insieme avrebbero meglio potuto spingersi lassù verso il cielo ignoto, quello che si stende oltre la volta del firmamento. L’eremo era l’alfa e l’omega delle mie escursioni. Nel camminare, nell’arrampicare, nello scendere nelle caverne trovavo la più grande strada aperta verso la conoscenza. In queste attività mi sentivo completo, poiché esse univano l’azione alla riflessione, il movimento del corpo a quello della mente e dello spirito. In esse sentivo la compiutezza del mio spirito “contemplattivo”. Studiare sudando lo trovavo qualcosa di divino e che veramente avvicinava l’uomo a Dio. E tanto più la mente imparava, quanto più il corpo era messo alla prova dello sforzo. La necessità mi insegnava una gran quantità di cose. E, nel momento del pericolo, mi sentivo vivo come non mai e traevo dal mio profondo risorse inimmaginate ed inimmaginabili ed apprendevo tutto con una rapidità stupefacente. In quei momenti, sentivo che la separazione tra corpo e anima, impostaci con violenza dall’esterno, non esisteva più ed il mio essere ne risultava acquietato ed appagato. Lo scoprire un nuovo recesso insondato della terra, fosse stata pure una grotticella insignificante, equivaleva per me all’esplorazione dei mari del sud o alla scoperta dell’Australia. Sapere di essere in un luogo dove nessuno prima di me aveva messo mai piede mi affascinava e mi spaventava allo tesso tempo e mi sentivo come un alieno sceso su un pianeta sconosciuto. Ma non di sole emozioni forti si è nutrito il mio spirito durante il pellegrinaggio su questa montagna, bensì, più spesso, di sensazioni soffuse, chiaroscurali, impalpabili, eteree. Sono state queste, con la loro inafferrabilità ed evanescenza, a spingermi a ricercarne la fonte intermittente e povera, ma, proprio per questo, inestimabilmente preziosa. Purtroppo, per provare simili flebilissime sensazioni, occorre essere preparati ad aspettare che le anime ascendano al monte e raggiungano i corpi che vanno molto più veloci di esse. Bisogna rallentare la vita che ci scorre dentro e disporsi all’ascolto della parola celata in ogni cosa. Bisogna rallentare la mente alla velocità dello spirito e solo cosi si può udire ciò che tace. L’atmosfera che avvolgeva il monte e che creava il suo fascino poteva rompersi con un semplice scoppio, uno schiamazzo, un movimento troppo brusco. Allora, le lancette dell’orologio umano si rimettevano a girare follemente, rinasceva lo spettro della morte che tronca la vita, realtà e fantasia si ridividevano, l’anima lasciava in basso il corpo e si volatilizzava nel cielo. Lo spazio riassumeva i suoi contorni soffocanti e l’angoscia tornava assieme al dolore. Ma qualcosa rimaneva, una parte rocciosa ed imprendibile in fondo all’anima, qualcosa che avrebbe serbato in eterno la nostra essenza fusa a ciò che più amavamo. Ma occorreva rimettersi alla ricerca delle parti mancanti dell’essere esploso, sparse ovunque nella Natura. Occorreva poi confrontarle con il modello che giaceva in fondo all’anima e riunire i pezzi come in un vivente mosaico. Ma ero certo che l’amore per la terra mi avrebbe riportato all’unità di me stesso, alla mia essenza. E’ stupefacente come una montagna possa assumere valenza di simbolo, simbolo di unità frutto di lacerazione e di lacerazione come prezzo dell’unità. Ecco l’importanza del radicamento alla terra: esso ci dona l’unità dell’essere e ci indica cose ben più grandi di noi stessi. Nella terra io ho trovato, in piccolo, segni e simboli di un universo più vasto, di una razionalità intrinseca in ogni cosa, di un’unità nella differenza, di un ordine ed una conciliazione cosmici. Certo, queste sono ancora sensazioni, impressioni, stati d’animo e, aggiungerà qualcuno: elucubrazioni, fantasticherie, follie. Ma io credo fermamente a queste evanescenze e, su esse, ho intenzione di fondare un edificio solido e duraturo, quello della conoscenza che, sola, può portare al rispetto degli altri e di se stesso. Credo, in realtà, che il mondo delle idee sia ben più solido di questo nostro mondo concreto. E, comunque, è sempre dalle idee che nascono i fatti, dagli ideali le grandi imprese e le grandi conquiste. La montagna era in me molto prima che vi salissi per la prima volta ed essa resterà in me molto dopo che me ne sarò andato da questa terra. Per ora ringrazio di essermi trovato a nascere sotto questa cima brulla e ventosa dalla quale posso guardare il mare e toccare con un dito l’orizzonte, illudendomi che la terra possa entrare tutta quanta nel palmo della mia mano. Euro Puletti |
PENSIERIdi Giuseppe Gierut______________IL MIO INFINITO
In ogni luogo s'affollano immagini di vita sospesa, d'incontri mancati, di un nulla pieno d'ombre e di echi. Rumori di un mistero eterno, che nutrono il dilemma senza fine del tuo essere. Voglio fermare il tempo, per scrutarne gli antri colmi di essere, per toccarne le presenze. Per liberarlo dai riflessi del passato. Dalle attese del futuro. Per mettere a nudo la Verità.
PENSIERO ARTE
Entrare nel concetto artistico è arduo, sia per l’artista, sia per chi si pone di fronte ad un’opera, nel tentativo di impossessarsi del suo linguaggio. L’arte è senz’altro il frutto più bello che la natura umana abbia generato, si entra con la propria sensibilità in ogni canale della vita, dando l’opportunità di concretizzare un’opera d’arte. L’amore ed il pensiero si ri-congiungono, ogni frammento di colore prende vita, scoprendo la luce nella quale è imprigionata l’eternità. I colori e le forme si impossessano del pittore e l’amore del proprio pensiero scandisce la bellezza dell’infinito. Ci si inoltra in un’avventura la cui meta è la ricerca della verità, ci si spoglia di ogni linguaggio, spingendo il pensiero ad illuminare l’essere dei suoi contenuti, della sua natura. La pittura è interrogare, pregare, è un indicatore di orizzonti, di conoscenza, che a volte si perdono nel tempo. Quando si tendono i colori, è come dare luce ad una foschia lasciata in ombra, è far rivivere la realtà del mistero, celato in ogni angolo e frammento della natura.
DOVE L’ARTE DIVENTA BELLEZZA
Quando si pone una tela su un cavalletto, è come aprire le porte di un mondo completamente diverso da quello in cui viviamo. I colori sparsi su un tavolino come parole, frasi, restano in attesa di prendere corpo, forma, anima. Un artista e la sua poesia, fantasia, conoscenza, amore, tutti uniti per iniziare una nuova avventura, un eclissarsi in memorie, realtà, illusioni che fanno da padrone. Ogni angolo visitato dalla mente, dai propri sensi, dalla propria percezione, interagiscono come un accavallarsi di note, lievi, forti, ondulate dall’attimo, dal tempo. Un celarsi dove il mistero e gli enigmi si fondono per la decifrazione di un codice sconosciuto e la volontà e la caparbietà del voler entrare nella verità è così forte, da spingerci continuamente a varcare i limiti della caparbietà, nella perseveranza di un fare. I colori e le forme vengono afferrati e posti in una tela, per prendere vita, dimestichezza con l’energia dell’artista stesso ed ecco comporsi nella perfezione il dialogo, ogni linea un significato, ogni variazione di sfumature un parlare, un’ espressione, una sostanza ed è in questo momento che subentra la sublimazione della bellezza, prendendo un volto ben preciso.
Questa è solo una piccolissima parte delle riflessioni e dei pensieri dell'artista Giuseppe Gierut, noto pittore eugubino di nascita, e ora residente a Senigallia. www.gierutgiuseppe.it |
ADAMO ED EVA IN PARADISO
(Piccola opera teatrale che doveva essere recitata nel mese di Marzo 2021 nel Teatro del Sodalizio San Martino di Perugia, ed è stata rinviata a data da destinarsi per la pandemia).
|
C'ERA UNA VOLTA... (Racconto di Cristiano Fanucci)
Come cambiano le cose... Di solito si pensa che oggi tutto vada meglio di ieri, c'è il progresso, i computer, tutti hanno l'automobile, la povertà e la fame saranno presto sconfitte, viva il progresso!
Una intervista a Cristiano Fanucci WEBMASTER
Nel 2021 sono stato intervistato da Elisa Ferranti per un articolo che è stato pubblicato sulla rivista del Sodalizio San Martino di Perugia. Ecco l'intervista:
Elisa: CHE COS'E' UN COMPUTER?
|
|